Come già accennato nel primo post, cercar di capire qual'è la molla ch'è scattata nel mio cervello per smuovermi a riprendere lo scrivere a ritmo quasi giornaliero sarebbe l'intenzione del qui presente.
Prima di tutto soffro d'insonnia. Non é cronica, ma, come dire, avverto l'impossibilitá di dormire di notte (sarebbe meglio dire: "mi prende la voglia di vivermi la notte", e cosí cambia decisamente), e la cosa non mi é mai dispiaciuta piú di tanto. Vabbé, capita di tanto in tanto di essere talmente stanchi da non voler vedere altro che il cuscino, e lá son dolori nel ritrovarsi a girarsi e rigirarsi nel letto per tempi che lí per lí sembrano lunghissimi.
Dovró, dunque, pur riempire tutto quel tempo "guadagnato" in qualche attivitá: capita anche che strappi un foglio di quaderno, me lo intaschi con una matita, e me ne vada a zonzo per la cittá vecchia. Molto rilassante... ed infatti quel foglietto resta sempre bianco.
La genesi di un testo, che non sia per scopi didattici o scientifici, non avviene in situazioni di relax o distensione emotiva; tutt'al più sarebbe più esatto, o quanto meno non molto lontano dalla realtà, dire che ogni opera d'arte di qualsiasi genere e specialità preveda un travaglio, una gestazione sofferta, un parto doloroso. Solo il disagio, un profondo e radicato senso di inadeguatezza al mondo circostante, può rappresentare tale molla. E non bisogna per forza chiamarsi Pavese o Hemingway, avere la loro stessa sensibilitá tormentata; loro come tanti altri rappresentano il culmine delle umane passioni, il meglio/peggio (a seconda di come la si voglia vedere) della nostra umanitá. Anche i "comuni mortali" possono arrivare a dar sfogo al proprio non star bene scrivendo. Terapia piuttosto in voga agli inizi del secolo scorso, all'alba delle discipline pischiche.
E non è un caso che iniziai il precedente blog poco dopo aver subito il terzo furto in casa - questa volta hanno pensato bene di entrarci mentre io ci dormivo! - ed essere caduto in un profondo stato confusionale, almeno per un mese buono. Lo giuro, mi si era totalmente impappato il cervello (chi se ne frega, me ne son inventato un altro... non di cervello!!). Infatti le righe scritte allora rispecchiano benissimo quel mio stato d'animo.
D'altronde nel descrivermi non trovo tanto imbarazzante definirmi fobico: eccomi qui, solo un fottuto fifone. E ormai le mie fobie sono abbastanza distinte e accerchianti: dalla paura dei ladri, che mi porta ad entrare in uno strato di trance ogni qual volta debba infilare una chiave in una serratura, e ad allarmarmi per il fruscio di una foglia o per il rumore di un vicino; a quella per le api, dove posso traformarmi letteralmente in una checca isterica; per arrivare alla più ancestrale (e forse più comune), quella della morte. A furia di vivere esse si mischiano, preparando cocktail spesso micidiali per la loro veemenza emotivo-nervosa. E questo provoca strascichi.
Non é una sterile confessione questa, per una megalomania o narcisismo di fondo, e avendone letti e seguiti un bel po', anche solo per documentazione, il web é strapieno di blogger del genere; mi permetto di parlare alla piazza di cose abbastanza personali poiché ognuno di noi ha qualche lato oscuro, zona di frontiera dove la navigazione é a vista ed il mare é popolato di mostri. É proprio della nostra natura aver paura. E la paura fa produrre...
Ma cosa?
Il più delle volte lascio andare libera la penna sul foglio, il polso segue l'elucubrante viaggio dei miei pensieri e mi lascio anch'io trasportare, mi isolo completamente dal resto attorno. Succede anche e soprattutto quando suono. Può darsi che in musica questo effetto di auto-isolamento risulti più marcato, poichè si deve impegnare il cervello nell'usare un linguaggio totalmente altro e astratto.
Non ho mai considerato la scrittura come un divertimento uggioso o un passatempo. Che un testo possa avere finalitá ludiche, essere esso stesso gioco, ma il processo della sua fabbricazione certo non lo é stato. É una sfida, la concentrazione é quasi massima - anche se non sembra alle volte, ah ah! -, tu devi acciuffare il discorso, lo devi domare e chiudere in un recinto di senso coeso e coerente. É uno sforzo da dei questo, richiede molto ma molto tempo, e quasi totalmente questo viene speso senza toccare alcuna penna. Quando si crea un mondo, si deve pur renderlo vivibile!, nulla puó essere lasciato al caso. E poi, scusate, la possibilitá che per esempio si ha con un romanzo di vivere altro da sé, il moltiplicarsi di vite, é un aspetto che m'ha sempre affascinato e che accomuna autore e lettore in questo matrimonio di carta e parole. Forse perché entrambi cercano un modo per alleggerirsi dalle innumerevoli zavorre della vita propria, trovando una via di fuga nel fantasticare di esistere in un altro modo, di non essere se stessi ma qualcuno o qualcos'altro; e forse anche perché autore e lettore si cercano per farsi forza a vicenda, tutti e due che il peso lo sentono piú degli altri (sarebbe potuta bastare quella pozione, mannaggia perché non averci pensato prima??!!).
Cos'é questa, un'apologia del dolore? Questo sarebbe il bandolo della matassa, il peso della vita che in alcuni diventa piú insopportabile che per altri?
Dolore, sorta di masochismo al quale, tutti coloro che pretendono/presumono/sperano di creare un'opera d'arte, si prestano/prostrano. Sembra in alcuni casi quasi volontariamente. E i maestri in questo caso sono i romantici e chiunque dopo di loro, con l'esplosione per le strade della carta stampata di individui dapprincipio passionali e ideologizzati, poi, per entropia cerebrale, goffi inetti e paranoici... necessitano di un ringraziamento caloroso per averci dato in pasto alle paure, averci messo di fronte ad una terra desolata, averci aperto gli occhi e fattoci rendere conto del tempo che é giá da tempo passato, dalla nostra cacciata dal paradiso...
Non incolpiamo loro: essi hanno "solo" avuto la lungimiranza di aver capito prima come sarebbero andate le cose. Non prendiamocela, é questo in fondo ció che fa grandi, che consegna alcuni individui all'immortalitá: intelligenze sbrigliate dal tempo, che snelle sfrecciano per le etá dell'umanitá, facendoci comprendere ció che siamo stati e ció che saremo. E per essere dei professionisti dell'uomo, certo che ci vuole il tormento, bisogna averci a che fare quotidianamente: come in tutte le professioni, imprescindibile é l'esperienza! Astenersi perditempo...
sabato 30 maggio 2009
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